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Alluvione Lunigiana. Legambiente alle Regioni: basta alibi, stop al cemento

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Al Presidente della Regione Liguria, Claudio Burlando
Al Presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi
 
p.c. Al Ministro dell’Ambiente, Corrado Clini
p.c. Al Presidente della Provincia della Spezia, Marino Fiasella
p.c. Al Presidente della Provincia di Massa-Carrara, Osvaldo Angeli
p.c. ai sindaci di Ameglia, Arcola, Aulla, Bagnone, Bolano, Borghetto Vara, Brugnato, Calice al Cornoviglio, Comano, Filattiera, Follo, La Spezia, Lerici, Licciana Nardi, Mulazzo, Pignone, Podenzana, Pontremoli, Rocchetta Vara, S. Stefano Magra, Sarzana, Sesta Godano, Tresana, Varese Ligure, Vezzano Ligure, Villafranca L., Zeri

 

Legambiente respinge con forza la proposta dei 27 sindaci del bacino del fiume Magra e propone l’istituzione di un tavolo di lavoro per attuare politiche concrete di mitigazione del rischio idrogeologico.

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Egregi presidenti,

è con grande convinzione e preoccupazione per il futuro del nostro territorio che vi chiediamo di respingere seccamente la richiesta contenuta nella lettera  inviata alla vostra attenzione dai 27 sindaci del bacino del Magra dopo i tragici eventi dello scorso 25 ottobre.

Ancora una volta si propongono interventi che seguono logiche e interessi locali senza avere una visione ampia e completa di tutto il bacino idrografico. Proposte che devono lasciare il posto a una politica del territorio che metta al centro punti qualificanti come la conservazione della natura e il passaggio, anche culturale, dalla “messa in sicurezza” alla “riduzione del rischio” attraverso la restituzione di spazio ai fiumi, il divieto di edificazione in aree inondabili (anche se “protette” da argini), la delocalizzazione degli insediamenti in esse esistenti, una nuova cultura di convivenza con il rischio e il ritiro degli ambiziosi progetti di “sviluppo” urbanistico in aree inondabili ai quali, però, i sindaci in questione –proprio perché rappresentano la loro priorità assoluta– non hanno fatto il minimo cenno.

Gli amministratori nel documento chiedono di attuare interventi volti al taglio della vegetazione fluviale e al dragaggio degli alvei “sovralluvionati”, ma si tratta d’interventi assolutamente inutili e dannosi, anche perché proposti in siti di importanza comunitaria, un parco regionale e varie Anpil: la vegetazione semmai ha svolto un ruolo positivo, attenuando la furia della corrente, e i letti dei fiumi negli ultimi 100 anni non si sono alzati, bensì abbassati (da 2 a ben oltre 4 metri). L’alluvione ancora una volta, non sembra aver insegnato nulla. Non vi è un sindaco che abbia fatto autocritica o che abbia proposto un ripensamento delle previsioni urbanistiche. Molti, invece, hanno invocato comodi alibi, attribuendo le responsabilità dell’alluvione ai cambiamenti climatici e alle mancate “pulizie fluviali” dalla vegetazione e dagli accumuli di sedimenti.

Occorre una radicale inversione di rotta, auspicata non solo da Legambiente ma supportata fortemente anche dalle dichiarazioni del ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare Corrado Clini che a fronte dei tragici eventi che continuano a sconvolgere il Paese ha ribadito l’urgenza di intervenire sull’intensa urbanizzazione delle aree ad alta criticità idrogeologica, anche attraverso la delocalizzazione delle strutture, e di destinare risorse a politiche efficaci per una concreta mitigazione del rischio. Un appello che passa anche per una nuova consapevolezza del rischio e un adeguamento delle conoscenze del territorio ai nuovi scenari dettati dai cambiamenti climatici in atto. Per questo riteniamo di assoluto buon senso le posizioni dell’Assessore all’ambiente della Liguria Renata Briano e del Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi di rendere non più edificabili le zone alluvionate. Crediamo infatti che sia necessario fermare tutto, aggiornare le normative e la pianificazione degli interventi sul territorio, in particolare per le concessioni edilizie in aree alluvionabili. È non solo una posizione ragionevole, ma dimostra senso di responsabilità e capacità di lettura degli eventi che ci stanno accadendo intorno.

La difesa del suolo deve diventare una sfida comune, che non si limiti all’attuazione d’interventi puntuali, spesso assolutamente inutili e dannosi (come dimostrano gli approfondimenti riportati in allegato) ma che preveda il coinvolgimento di tutti i soggetti interessati: le Regioni, le Provincie e i Comuni, l’Autorità di bacino, la comunità scientifica a partire dagli ordini professionali più interessati quali i geologi, gli architetti e gli ingegneri, Legambiente e le altre associazioni ambientaliste e di volontariato per poter mettere in campo una nuova cultura del territorio e dei fiumi, primo grande passo per rendere più sicuro l’ambiente in cui viviamo.

Vi rivolgiamo questo appello nella consapevolezza dell’enorme responsabilità che oggi grava su di voi: in mancanza di una radicale inversione di i disastri di questi giorni non potranno che ripetersi.

Roma, 28 novembre 2011

Vittorio Cogliati Dezza, Presidente Nazionale Legambiente
Santo Grammatico,
Presidente Regionale Legambiente Liguria
Fausto Ferruzza, Presidente Regionale Legambiente Toscana

 


La seguente appendice è dedicata ad argomentare l’inconsistenza dei luoghi comuni addotti dai sindaci (punti 1-3), a mostrare il principale punto debole dell’attuale normativa (grazie al quale gli interventi di messa in sicurezza conducono all’aumento del rischio: punto 4), a fornire indicazioni concrete per una reale riduzione del rischio (punto 5) e a discutere il caso degli insediamenti alla foce del Magra (punto 6). Se ne raccomanda perciò vivamente la lettura.

 

Appendice

 

1.I falsi alibi: i cambiamenti climatici

È indubbio che in Italia negli ultimi decenni si è accentuata la frequenza degli eventi estremi, sia siccità che precipitazioni eccezionali (“tropicalizzazione” del clima), elementi che certificano i cambiamenti climatici in atto e le loro evidenti conseguenze su scala locale. Su questo occorre un impegno concreto perché si arrivi concretamente e in tempi rapidi ad un accordo internazionale vincolante, se vogliamo evitare che situazioni analoghe si ripetano con frequenza ed intensità maggiori, promuovendo al contempo comportamenti virtuosi che possano solo frenare il riscaldamento ed evitare che giunga alle estreme conseguenze. Ma se le violente precipitazioni sono state la causa scatenante non è imputabile alla pioggia il disastro che questo evento ha causato nei territori coinvolti.

Se all’origine delle recenti alluvioni vi sono dunque, ovviamente, precipitazioni eccezionali, dovremmo trarne la conclusione logica di verificare e probabilmente rivedere le carte del rischio (estendendo le aree inondabili) e, di conseguenza, rivedere le misure da adottare (rafforzandole) e le previsioni urbanistiche (ridimensionandole).

I cambiamenti climatici diventano, invece, un comodo alibi quando –come nella lettera dei 27 sindaci– sono invocati (a propria discolpa) come causa delle alluvioni, avendo però cura di tacere sulle proprie responsabilità (prima tra tutte l’urbanizzazione delle aree inondabili) e di sfuggire alle logiche conclusioni (prima tra tutte il ridimensionamento delle previsioni urbanistiche in aree inondabili).

 

2.I falsi alibi: le “pulizie fluviali”

L’esondazione può essere favorita dagli alberi trascinati dalle piene quando le loro dimensioni si avvicinano a quelle della larghezza dell’alveo o della luce dei ponti che possono così essere parzialmente o totalmente ostruiti. Sono perciò interessati da questo rischio soprattutto i piccoli corsi d’acqua. Le conseguenze possono essere devastanti, soprattutto per gli edifici situati a breve distanza (direttamente investiti dalla corrente d’esondazione). Nei medi e grandi corsi d’acqua il rischio di ostruzione è solitamente irrilevante, a meno che vi siano ponti con luci strette.

In ogni caso, l’ostruzione di ponti, unita all’osservazione delle migliaia di alberi trascinati sul litorale dalle piene maggiori (come è avvenuto in Lunigiana a seguito dell’alluvione del 25 ottobre 2011), hanno contribuito a generare l’errata convinzione –divenuta ormai un luogo comuneche attribuisce la responsabilità delle alluvioni alle mancate “pulizie fluviali”.

Va subito detto che nella gran parte dei casi la quasi totalità di questi alberi non proviene affatto dagli alvei, bensì dalle centinaia di frane grandi e piccole che, in occasione di precipitazioni eccezionali, interessano diffusamente i versanti. È possibile giungere a questa conclusione identificando le specie arboree spiaggiate. Anche nel recente evento alluvionale basta guardare l’alveo del Magra e del Vara per vedere centinaia (forse migliaia) di alberi abbattuti, ma ancora tutti al loro posto, con la ceppaia ancora in parte radicata (foto 1-3). Pertanto, anche se gli alvei fossero stati “ripuliti” dalla vegetazione, la piena avrebbe trascinato al mare la stessa quantità di alberi (provenienti dalle frane). Una prima conclusione è che le cosiddette pulizie fluviali sono impotenti verso gli alberi (inevitabilmente) trascinati in alveo dalle frane: sono dunque semplicemente INUTILI.

Foto 1. Alveo del Vara dal ponte di Ceparana: centinaia di alberi abbattuti dalla piena del 25/10/11, ma rimasti in posto.
Foto 2. Altro scorcio: alberi abbattuti dalla piena, ma rimasti in posto.
Foto 3. La freccia indica la posizione dell’unico albero abbattuto e trascinato via dalla piena che siamo riusciti ad individuare. Foto 4. Tronchi intercettati e trattenuti dalla vegetazione in alveo.

 

Va inoltre considerato che possono essere anche CONTROPRODUCENTI. La vegetazione in alveo, infatti, svolge due utili funzioni: a) comportandosi come un pettine, intercetta e trattiene parte degli alberi portati in alveo dalle frane (foto 4); b) aumentando la scabrezza dell’alveo, accresce l’attrito e riduce perciò la velocità della corrente e la sua forza distruttiva. Quindi, se gli alvei fossero stati ripuliti, l’alluvione sarebbe stata ancora più violenta e gli alberi provenienti dalle frane e trascinati dalla piena avrebbero impattato con forza ancora maggiore sulle strutture urtate.

Da non trascurare, infine, il fatto che le pulizie fluviali sono COSTOSE, anche perché dovrebbero essere estese all’intero reticolo idrografico, affluenti compresi (centinaia e centinaia di km), pena l’inefficacia. Spendere periodicamente un sacco di soldi, che peraltro non ci sono (e ce ne saranno sempre meno), sarebbe ugualmente giusto per interventi efficaci, ma sarebbe un vero spreco per interventi inutili e controproducenti.

In conclusione, salvo situazioni particolari, l’unico intervento ragionevole di manutenzione in alveo è la rimozione mirata di singoli esemplari arborei morti o pericolanti. Nei piccoli torrenti che attraversano centri urbani è invece spesso necessaria una manutenzione più intensa e frequente, il più delle volte perché, in maniera irresponsabile, sono stati costruiti ponti con luce insufficiente (foto 5 e 6).

Foto 5. Borghetto Vara. Sul T. Pogliaschina sono stati costruiti due ponti ravvicinati, coprendo il tratto interposto per realizzare una piazza triangolare (foto a sinistra). Si tratta di un chiaro esempio di irresponsabilità, purtroppo non infrequente. L’arcata restringe di circa la metà la luce del ponte (foto a destra) e la piazza è sostenuta da un fitto impianto di piloni in alveo: una vera e propria “trappola per tronchi” che sembra progettata apposta per ostruire il deflusso delle piene. In queste condizioni la presenza di alberi in alveo è certamente incompatibile con la sicurezza idraulica. Ma, ancor prima, è il ponte stesso che è incompatibile con il buonsenso! Nell’alluvione del 25 ottobre, come prevedibile, il ponte è stato ostruito e il torrente è esondato (così come in corrispondenza del ponte a monte di Borghetto).
Foto 6. Sarzana, ponte della via Cisa sul T. Calcandola. A sinistra, vista da monte: il ponte ha un pilone in alveo ed una luce palesemente troppo bassa, altamente suscettibile all’ostruzione da parte di alberi trascinati dalle piene. Al centro, vista da valle: la luce troppo bassa è dovuta alla piattaforma in cemento che occupa più della metà dell’altezza disponibile. A destra, vista laterale da monte: le due passerelle passacavi recentemente realizzate accrescono ulteriormente il rischio di ostruzione. Situazioni analoghe sono diffusissime in tutto il Paese. Elementari norme di prudenza suggerirebbero ponti ad arcata unica (senza piloni in alveo) –possibilmente sopraelevata– e con luce alta (sostituendo la briglia in cemento, finalizzata a consolidare pila e spalle, con un adeguato approfondimento delle loro fondazioni).

Diverso è l’approccio alla manutenzione DOPO che la piena è passata. Gli alberi abbattuti dalla piena, anche se ancora al loro posto, sono ovviamente suscettibili ad essere completamente scalzati e trascinati qualora si verificasse una seconda piena. Per prevenire questo rischio è opportuno –come previsto dalle norme dell’Autorità di bacino– tagliarli in spezzoni di dimensioni tali da impedire la possibilità che possano incastrarsi nella luce dei ponti posti a valle (ciò vale dove vi siano effettivamente ponti con luce stretta, quindi in misura ridotta per il Magra). Questi spezzoni possono tranquillamente essere lasciati in alveo: non rappresentano un pericolo e possono svolgere una funzione ecologica, consentendoci di risparmiare spese.

Per un approfondimento sulla controversa questione delle pulizie fluviali si veda l’allegato Vegetazione in alveo: sì o no?

 

3. I falsi alibi: il dragaggio degli alvei

Anche questo intervento, richiesto a gran voce dai 27 sindaci dei comuni colpiti dall’evento del 25 ottobre, è costoso, inutile e controproducente. Ma, ancor prima, è un falso obiettivo, poiché la causa dell’alluvione non è l’eccesso di sedimenti in alveo.

Basterebbe un’occhiata alla carta delle variazioni altimetriche del Magra e Vara (redatta nel 2005 dall’università di Firenze su incarico dell’Autorità di bacino) per rendersi conto che l’alveo del Magra ad Aulla è 1-2 m più basso di quanto fosse un secolo fa e dopo la confluenza col Vara si è approfondito di oltre 4 m (Fig. 1). Attribuire l’alluvione ad un innalzamento del letto del Magra, per accumulo di sedimenti, è dunque un’affermazione gratuita e priva di fondamento. Ad ulteriore conferma si consideri che l’approfondimento dello studio (2007) fornisce linee guida e raccomandazioni di gestione dei sedimenti volte ad accelerare il ripascimento degli alvei incisi (dunque il loro innalzamento!), al fine di raggiungere il riequilibrio sedimentologico. Esattamente il contrario di quanto richiesto dai sindaci.

Fig. 1. Carta delle variazioni altimetriche degli alvei nell’ultimo secolo e, nel riquadro piccolo, di quelle recenti. Sebbene nell’ultimo quindicennio si assista ad una tendenza al recupero (alvei stabili o con tendenza alla sedimentazione), in tutte le zone colpite dall’alluvione l’alveo non ha ancora recuperato l’incisione subita nell’ultimo secolo ed è tuttora più profondo (da 1 m a ben oltre 4 m) di quanto fosse un secolo fa. Fonte: “Studio geomorfologico dei principali alvei fluviali nel bacino del Fiume Magra finalizzato alla definizione di linee guida di gestione dei sedimenti e della Fascia di Mobilità Funzionale”, Dip. di Ingegneria, Univ. di Firenze (prof. M. Rinaldi), 2005. Lo studio, assieme alle cartografie di dettaglio, è scaricabile da www.adbmagra.it.

Ma i sindaci la pensano diversamente: ben più interessati ai comodi alibi che al riscontro obiettivo degli studi, chiedono all’unisono “con convinzione e determinazione” la rimozione dei sovralluvionamenti e i dragaggi del fiume.

Si tratta di misure INUTILI perché, se è vero che il tratto scavato è in grado di veicolare una maggior portata, la protezione locale così ottenuta è di breve durata, visto che il tratto viene ben presto colmato dai sedimenti provenienti dai tratti a monte. Nel tratto terminale inoltre verrebbe meno anche la protezione temporanea dalle alluvioni: come mostrato dalla recente relazione del prof. Seminara (video: http://www.youtube.com/watch?v=KClFkpOcqYM) del dipartimento di ingegneria dell’università di Genova, infatti, 1) il fondo tende a raggiungere il proprio profilo d’equilibrio e a ripristinarlo a seguito di dragaggi e 2) al suo passaggio, la piena si scava da sola il fondo, indipendentemente dal fatto che siano stati effettuati dragaggi o no. Entrambi i motivi citati portano a concludere che i dragaggi sono ininfluenti: sono dunque inutili.

Sono però anche CONTROPRODUCENTI, visto che la maggior portata che transita in un tratto scavato si scarica a valle: più correttamente, dunque, non si può parlare di riduzione del rischio, bensì del suo trasferimento al centro abitato posto a valle, che sperimenta un rischio accresciuto. Con questa logica, se in tutti i centri abitati a rischio di inondazione l’alveo fosse scavato, Fiumaretta e Bocca di Magra –già così frequentemente colpite– subirebbero di anno in anno piene più intense: è sensato dar retta ai sindaci e spendere soldi pubblici per ottenere questo risultato?

Ma i dragaggi sono controproducenti anche per un altri robusti motivi: provocherebbero un abbassamento dell’alveo che gradualmente si estenderebbe all’intero reticolo idrografico (sia a monte che a valle del tratto dragato) inducendo scalzamento e crollo di ponti, difese spondali e argini, instabilità e frane di strade e versanti (per scalzamento al piede), abbassamento della superficie freatica, riduzione delle riserve idropotabili della falda e loro deterioramento qualitativo per intrusione salina, mancato ripascimento del litorale e sua erosione (per un approfondimento su questi impatti si veda l’allegato Estrazione di inerti: dallo sfruttamento alla gestione). Tutti fenomeni già largamente sperimentati nei decenni scorsi a seguito delle escavazioni e che graveranno (in termini ambientali, ma anche economici) ancora per decenni sul nostro territorio. Allora si giunse a dire “mai più” ed a vietare per sempre le escavazioni; oggi i sindaci vorrebbero farci ripiombare nel passato.

Quanto all’affermazione dei sindaci che sostengono ingenuamente (o maliziosamente?) che i dragaggi potrebbero essere effettuati “a costo zero” (pagandoli “in natura”, cioè concedendo le ghiaie alle ditte che eseguono i lavori), si tratta di un meschino trucco: questi lavori sarebbero ancor più COSTOSI del pagare le ditte direttamente in denaro. L’abbassamento dell’alveo conseguente ai dragaggi, infatti, innescherebbe nuovamente le conseguenze delle escavazioni sopra accennate, costringendoci per decenni ad ingenti spese per la difesa del litorale, la ricostruzione di ponti e strade franate, ecc. Il trucco, naturalmente, sta nel trasferire i costi (accentuati) sulle generazioni future. Insomma, non contenti dei danni del passato (che paghiamo ancora oggi), i sindaci si apprestano ad una vera e propria rapina a danno dei nostri figli e nipoti: un caso esemplare di perfida lungimiranza!

 

4.Come accrescere il rischio grazie alla “messa in sicurezza”

Il partito del cemento, ovunque imperante in amministrazioni di vario colore, è riuscito a stravolgere perfino la finalità degli interventi di messa in sicurezza. Infatti, sebbene la costruzione di un argine riduca il rischio nell’area da esso protetta, se in seguito l’area viene urbanizzata si può ottenere il risultato opposto: se ad esempio l’argine riduce di 5 volte la frequenza d’inondazione ma in caso d’inondazione il danno aumenta di 10 volte, il bel risultato di tutti i nostri investimenti per interventi di “messa in sicurezza” sarà il raddoppio del rischio (Fig. 2).

Fig. 2. Maggior protezione, può portare a maggior rischio! Un dato Evento A che prima produceva danno (figura a sinistra), ora dopo la realizzazione della protezione arginale (figura a destra) è neutralizzato perché la portata è contenuta nell’alveo. Esiste però un evento superiore (Evento B), di minor probabilità, ma sempre possibile, che supera la protezione. Poiché l’illusorio senso di sicurezza fornito dall’argine ha indotto l’urbanizzazione dell’area (cerchio a destra), sono aumentati sia il danno potenziale sia il rischio complessivo (la colonna rossa, nella parte inferiore della figura a destra, è più alta della analoga a sinistra). Se, ad es., la frequenza di inondazione dell’area si riduce di 5 volte (TR da 30 a 150 anni) ma, nel caso di inondazione, il danno aumenta di 10 volte, allora si ha un raddoppio del rischio complessivo.  P: probabilità degli eventi che superano la soglia di danno; D: danno corrispondente; R: rischio. Nota: si tratta di uno schema semplificato; per la definizione corretta di rischio si veda il box Tempo di ritorno e Rischio nel paragrafo precedente. (Illustrazione: A. Nardini). Figura e didascalia tratte da: CIRF, 2006. La Riqualificazione Fluviale in Italia. Mazzanti Ed., Venezia.

L’amara realtà è che il caso illustrato, lungi dall’essere puramente ipotetico, è divenuto la norma. Grazie alla distorta concezione di “sviluppo” del partito del cemento, infatti, siamo ormai giunti al punto che spesso un argine non viene costruito per ridurre il rischio alluvionale, ma per dare il via libera all’urbanizzazione dell’area (con assoluta indifferenza al conseguente aumento del rischio). Un vero e proprio cavallo di Troia!

D’altronde la stessa alluvione che ha colpito la Lunigiana, la Val di Vara e Genova ha evidenziato senza ombra di dubbio le responsabilità dell’«ubriacatura dello sviluppo» che da decenni governa tante amministrazioni, la cui unica priorità è stata l’espansione urbanistica a tutti i costi. La moderna Aulla è stata interamente edificata in pieno alveo del Magra, arginato e colmato (Fig. 3). Nella loc. Bagni di Podenzana e ad Aulla sono state rilasciate le licenze edilizie il giorno prima dell’entrata in vigore delle norme di salvaguardia dell’Autorità di bacino (che ne vietavano l’edificazione in quanto inondabile), con il palese intento di vanificarle in partenza. Nei comuni di Ameglia e Sarzana è tutto un fiorire di grandi progetti di ulteriore edificazione in aree inondabili (darsene, Masterplan Marinella, Area artigianale D2, ecc.), mentre da tempo ci si oppone sia agli argini “alti” (dimensionati per la piena 200le) sia allo scolmatore. A Brugnato dovrebbe sorgere un enorme outlet. E così via.

Fig. 3. A: scorcio di Aulla negli anni ’50 (collage di due cartoline d’epoca); la moderna città sarà edificata nell’area verde delimitata dalla linea tratteggiata, comprendente la piana inondabile e perfino parte dell’alveo attivo. B: inizio della costruzione dell’argine (1958-59) per “affrancare” i terreni di pertinenza fluviale e, dopo riempimento a tergo con terra di riporto, edificare la città. C: il campo sportivo, a due passi dal fiume Magra frequente inondato: al suo posto sorge oggi il municipio. D: lo stesso scorcio di Aulla della foto A, oggi (la nuova edificazione è delimitata dall’area tratteggiata).

Se la politica (con leggi nazionali e/o regionali) non saprà o vorrà spezzare questo circolo vizioso, il futuro è segnato: più spenderemo per “mettere in sicurezza” più aumenteranno i danni alluvionali (in termini economici e di vittime).

 

5.Indicazioni per una reale riduzione del rischio

Per spezzare questo circolo vizioso occorre abbandonare la stessa terminologia di “messa in  sicurezza”, se non altro in quanto ingannevole visto che 1) protegge solo da eventi con un dato tempo di ritorno, 2) non considera le rotture arginali, purtroppo tutt’altro che rare, 3) conduce spesso, come sopra accennato, all’aumento del rischio.

Perciò, abbandonata l’illusoria “messa in sicurezza”, dovremmo parlare di “riduzione del rischio” e di strategie per “convivere col rischio”. In ogni area inondabile dovremmo allora calcolare il rischio (cioè il prodotto tra la probabilità d’inondazione e l’entità dei danni in caso d’inondazione) che dipende ovviamente sia dalle opere di difesa presenti sia dai beni (edifici e altro) presenti nell’area e dal loro valore. A quel punto potremmo decidere l’entità del rischio che consideriamo “accettabile” (ad es. monetizzandolo e ripartendolo in una data cifra di euro l’anno) e sottoporre ogni piano regolatore alla verifica che il rischio accettabile non sia superato. Tra le misure da adottare dovremmo naturalmente considerare la delocalizzazione degli edifici a maggior rischio e la restituzione di spazio ai corsi d’acqua.

Occorrono dunque leggi coraggiose che impongano questo nuovo approccio e stabiliscano l’entità del rischio accettabile: è un invito che rivolgiamo alle Regioni Liguria e Toscana per dare uno sbocco concreto ed efficace all’intento dichiarato di porre fine all’edificazione nelle aree a rischio. Il problema, infatti, è che con l’attuale normativa le aree “messe in sicurezza” non sono più considerate a rischio. Senza modifiche normative, dunque, quel nobile intento rischia di essere vanificato, in quanto non riuscirebbe a fermare l’urbanizzazione delle aree inondabili e il conseguente aumento del rischio.

 

6.Un caso concreto: gli insediamenti alla foce del Magra

Fiumaretta e Bocca di Magra, essendo ad una quota appena superiore al livello del mare, sono ad elevato rischio d’inondazione e, in effetti, sono frequentemente inondate (tre volte negli ultimi tre anni). Per proteggere i due abitati dalla piena 200le gli studi dell’Autorità di bacino hanno valutato una decina di scenari, basati essenzialmente su diverse combinazioni di arginature di varia altezza e di un canale scolmatore (con varie configurazioni).

Il comune, adducendo motivi paesaggistici, ha respinto sia gli argini “alti” (dimensionati per la piena 200le) sia lo scolmatore ed ha accettato solo argini “bassi” (h 0,4-1,5 m) capaci di contenere la piena con tempo di ritorno 80-100 anni ma privi di franco arginale. Questa scelta implica l’accettazione di inondazioni periodiche dei due abitati, in teoria mediamente ogni 80-100 anni ma in pratica molto più frequentemente, vista la mancanza del franco arginale e tenuto conto dell’intensificarsi degli eventi meteorici estremi registrato negli anni recenti. Va inoltre considerato che la nuova edificazione prevista da ambiziosi progetti di espansione (Masterplan Marinella) comporterebbe l’incremento dei danni in caso di inondazione.

I motivi paesaggistici addotti dal sindaco per respingere gli interventi di riduzione del rischio alluvionale sono certamente lodevoli, ma forse dovrebbe spiegare onestamente agli abitanti (che lui stesso definisce esasperati, arrabbiati e stanchi) che, grazie alle sue scelte, finiranno sott’acqua altre volte. Magari un referendum potrebbe rivelare che gli abitanti preferiscono gli argini alti o lo scolmatore (o magari entrambi), pur di non subire più alluvioni. E forse a qualcuno potrebbe venire il sospetto che il vero motivo che ha portato a respingere lo scolmatore non sia tanto di natura paesaggistica, quanto il fatto che pregiudicherebbe la possibilità di edificazione di un’ampia superficie della piana.

Incurante di tutte le argomentazioni addotte in questa appendice, il sindaco di Ameglia intende illudere i suoi concittadini (e i presidenti regionali) che la soluzione al rischio alluvionale è il dragaggio del Magra.

La strategia complessiva è chiara: da una parte sviare l’attenzione dalle responsabilità del Comune tacendo sulle cause primarie dell’alluvione (l’edificazione nelle aree inondabili) ed additando finti colpevoli (la vegetazione in alveo, i presunti sovralluvionamenti); dall’altra parte indicare soluzioni illusorie (il dragaggio degli alvei). Poco importa se la soluzione indicata è inefficace, se comporta ulteriori costi ambientali ed economici, se i cittadini subiranno altre alluvioni. Il vero fine della strategia, infatti, è scongiurare il rischio (evidentemente temuto ben più dell’alluvione) di un ridimensionamento dei progetti di urbanizzazione delle aree inondabili.

In poche parole, il sindaco, non concependo altra idea dello sviluppo che quella del cemento, sta lucidamente preparando le condizioni affinché le prossime alluvioni colpiscano ancora Fiumaretta e Bocca di Magra, producendo danni ancor superiori a quelli attuali.


 Scarica l’allegato “Vegetazione in alveo: sì o no?” (220 KB)

 Scarica l’allegato “Estrazione di inerti: dallo sfruttamento alla gestione” (450 KB)

 



Per saperne di più:

Sull’alluvione in Lunigiana:

Alluvione nel basso Magra: vere e false soluzioni (VIDEO 28/1/2012)

Aulla, l’alluvione prevista da Legambiente (VIDEO 7/11/2011)

 


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