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Riduzione del rischio idraulico: perché tante divergenze?

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Dopo le recenti alluvioni del Magra tutti chiedono a gran voce la messa in sicurezza del territorio, ma ognuno la vuole a modo suo.
Divergenze tecniche? No, interessi divergenti: chi ci guadagna? Chi paga? Un processo decisionale partecipativo può risolvere i conflitti

 

Pino Sansoni

 

Il rischio alluvionale non è più oggetto di derisione

Fino ai primi anni 2000 la sensibilità al tema della sicurezza idraulica era piuttosto scarsa: le previsioni del piano di bacino (piena duecentennale di circa 7.000 m3/s) venivano derise perché considerate sovrastimate e fu opposta una veemente resistenza sia alla perimetrazione delle aree inondabili (in quanto soggette a vincoli edificatori) sia agli interventi di difesa (sostanzialmente casse di laminazione nell’alto e medio bacino e adeguamento degli argini nel basso bacino).

L’impressionante serie di piene dell’ultimo decennio (nov. 2000, gen. e dic. 2009, nov. e dic. 2010, ott. 2011) e la loro “sorprendente” intensità hanno fatto ricredere molti: la percezione del rischio alluvionale è oggi divenuta concreta e diffusa e ne è scaturita una forte domanda di difesa.

 

Ma siamo ancora accecati dall’interesse di parte

Il guaio, però, è che è rimasto immutato l’atteggiamento mentale di perseguire il proprio interesse particolare (personale, di categoria o di comunità locale) anche a scapito dell’interesse generale. È noto che il proprio interesse condiziona talmente il nostro modo di pensare che siamo portati a ritenere giusto tutto ciò che concorda con esso e sbagliato ciò che lo contrasta. Il condizionamento è talmente forte da essere spesso inconsapevole: l’interessato recepisce al volo e con convinzione le argomentazioni tecniche che vanno a suo vantaggio e tende a dimenticare o a considerare false o, comunque, irrilevanti quelle scomode. A chi invece non è direttamente coinvolto (non ha cioè un suo interesse in gioco), il ruolo predominante degli interessi di parte risulta palese, tanto da poterlo usare come chiave di lettura (addirittura anche predittiva!) della posizione dei diversi gruppi sociali. Proviamo a vedere all’opera questo condizionamento mentale immedesimandoci nei gruppi sociali in gioco.

 

La causa primaria delle alluvioni: è evidente, ma preferiamo non vederla

Le carte dell’Autorità di bacino mostrano in modo inequivocabile come nell’ultimo secolo (in particolare nella sua seconda metà) sulle aste fluviali del Magra e del Vara ci sia stata una corsa impressionante all’urbanizzazione delle aree inondabili, restringendo anche di 3-4 volte gli alvei di piena. È del tutto evidente che questa è la causa principale dei recenti danni alluvionali: abbiamo sfidato la più elementare prudenza andando a costruire in aree a rischio, nell’illusoria convinzione di averle ormai strappate al fiume e “messe in sicurezza”.

Eppure quella scelta irresponsabile non solo non incontrò alcuna resistenza, ma conquistò grande consenso. La spiegazione sta nel ruolo “ideologico” svolto dall’interesse: lo stato ci metteva i soldi e costruiva argini, pennelli e difese spondali; i proprietari di terreni idonei ad un’agricoltura di sussistenza si ritrovavano con terreni edificabili, l’urbanizzazione forniva occupazione, gli amministratori gioivano per lo “sviluppo” del loro territorio. Così la convenienza a breve termine faceva balzare agli occhi come evidenti i vantaggi di quella scelta e faceva percepire il rischio alluvionale come ormai eliminato, o improbabile; alle eventuali cassandre avremmo sicuramente risposto fiduciosi che, nel caso, il potenziamento delle opere di difesa ci avrebbe messi definitivamente al sicuro.

Il fatto che anche dopo le recenti devastanti alluvioni né un sindaco né un comitato abbia chiesto di rendere inedificabili le aree a pericolosità idraulica è la prova più evidente di quanto forte sia tuttora il condizionamento mentale dell’interesse: il terrore (anche quando inconsapevole) di veder crollare il valore dei terreni e di ostacolare lo “sviluppo” porta a chiedere altri interventi e a non prendere nemmeno in considerazione quello più efficace, ma scomodo.

 

Lo scavo degli alvei è controproducente?
Che importa? Basta che sia utile per noi!

Proviamo a metterci nei panni dei residenti nelle aree inondabili del basso Magra (es. Arcola, Romito, Senato). Avendo noi stessi costruito o comprato la nostra casa in queste aree, non saremo nemmeno sfiorati dal dubbio di essere i primi responsabili dei nostri guai. Al contrario, saremo portati a considerare la nostra licenza edilizia non alla stregua di un semplice permesso a costruire (a nostro rischio e pericolo), ma come un titolo che ci dà il diritto ad essere difesi. Rivendicheremo perciò con forza che il Comune si faccia carico degli interventi necessari a difenderci, quasi fosse davvero un nostro diritto contrattuale, anziché rientrare nel novero dei semplici principi della buona amministrazione in base ai quali un ente pubblico –se dispone di risorse sufficienti– ha il dovere di investirle per migliorare la qualità della vita dei cittadini, scegliendo oculatamente le priorità.

E naturalmente chiederemo interventi di immediata efficacia: una bella “pulizia fluviale” e lo scavo dell’alveo, in modo da far transitare una maggior portata di piena, il più rapidamente possibile e senza esondare. La consapevolezza delle limitare risorse disponibili ci porterà poi a considerare giusta, se non addirittura geniale, l’idea di fare l’intervento a costo zero, pagando cioè la ditta esecutrice dei lavori con le ghiaie estratte.

Saremo invece sordi ad ogni obiezione che possa ostacolare il raggiungimento del nostro obiettivo. Al contrario di quanto noi sosteniamo, l’alveo non è sovralluvionato, bensì inciso? Il taglio della vegetazione e lo scavo dell’alveo non sono interventi di “difesa” dal rischio, bensì di “trasferimento” del rischio? Tutta la portata che riusciremo ad allontanare dal nostro tratto si scaricherà sugli abitati situati più a valle, che si ritroveranno perciò con un rischio accresciuto? Non è sensato spendere soldi pubblici solo per trasferire il rischio da Tizio a Caio? Non ci crediamo e, in ogni caso, anche gli altri troveranno le loro soluzioni.

L’abbassamento dell’alveo conseguente agli scavi minerebbe la stabilità dei ponti, rendendoli più suscettibili al crollo? Ne dubitiamo; comunque i soldi per ricostruirli li sborserebbe lo Stato, mica noi! Favorirebbe l’erosione del litorale, danneggiando gli stabilimenti balneari? Siamo scettici e, comunque, si potrebbe rimediare con ripascimenti artificiali.

Insomma, qualunque obiezione ci venga posta saremo portati a considerarla falsa o irrilevante: l’importante è che venga risolto il nostro problema. E, naturalmente, mentre troviamo doveroso che l’ente pubblico debba farsene carico, anche economicamente, consideriamo irrilevante o con ostilità l’obiezione che dovrebbe anche impedirci di risolvere i nostri problemi scaricandoli sugli altri.

 

Cambiamo ruolo: mettiamoci nei panni dei residenti di Fiumaretta

Costruire Fiumaretta, urbanizzando le rive di un fiume capace di smaltire 2.500 m3/s mentre la portata della piena duecentennale è 7.000 m3/s, è stata una vera follia. È evidente a chiunque, ma non a noi che viviamo in questo splendido borgo. Il fango che ripetutamente ha invaso le nostre case distruggendo tutto e mettendo a repentaglio la nostra vita ci ha reso infuriati; ancor più dei residenti nelle frazioni situate più a monte, rivendichiamo il diritto a vivere sicuri e sereni e pretendiamo perciò l’intervento pubblico.

Certo, potremmo proteggerci costruendo argini dimensionati per la piena duecentennale, ma sarebbero una barriera visiva che impedirebbe la vista del fiume, un vero peccato che deteriorerebbe la qualità paesaggistica e la stessa attrattiva turistica. Troveremo perciò del tutto naturale cercare soluzioni che salvino capra e cavoli.

Potremo perciò accettare la costruzione di argini bassi, risolvendo parte del problema, ma della restante parte dovrebbero farsene carico altri. Ecco allora che vedremo del tutto ragionevole la realizzazione di uno scolmatore che parta presso l’Intermarine e giunga al mare attraverso la piana tra la strada provinciale e il viale XXV Aprile: tra l’altro, lo scolmatore attraverserebbe semplici campi. E magari, in abbinamento, vedremo con favore il dragaggio del tratto prefociale che darebbe anch’esso un contributo, sia pur piccolo, alla riduzione del rischio.

Il solito automatismo mentale ci farà considerare irragionevoli o di secondaria importanza le obiezioni a questa soluzione.

Quelle degli agricoltori che –vedendosi non solo colpiti nel reddito (la loro attività sarebbe compromessa per i loro campi squarciati dallo scolmatore e per il deterioramento della fertilità del suolo), ma anche esposti ad un rischio alluvionale dal quale oggi sono sostanzialmente immuni– si chiedono perché mai dovrebbero farsi carico loro dei problemi dei residenti di Fiumaretta. Se per Fiumaretta il valore paesaggistico viene prima di tutto, si rassegni ad essere periodicamente inondata; se invece preferisce non subire più inondazioni si costruisca gli argini alti: è troppo comodo dirottare il rischio alluvionale sui residenti nella piana agricola!

Quelle degli operatori balneari che sarebbero danneggiati sia dall’erosione del litorale conseguente ai dragaggi, sia dalla nuova foce (dello scolmatore) che intersecherebbe la spiaggia sottraendole spazio e deteriorandone l’attrattiva, sia dall’inquinamento delle acque di balneazione indotto dallo scolmatore.

Analogamente, considereremo allarmistiche o di importanza marginale le obiezioni dei costi elevati dello scolmatore, dei lunghi tempi di realizzazione e di chi teme la salinizzazione della piana indotta dallo scolmatore.

 

Gli imprenditori della nautica

Cambiamo giacca, indossando quella degli operatori nautici. La navigabilità del fiume è ovviamente per noi un prerequisito indispensabile (senza di essa dovremmo chiudere l’attività), ancora più importante della protezione dal rischio idraulico. Tuttavia il completamento delle arginature dalla confluenza Magra-Vara alla foce, per proteggere i centri abitati, confinerà in alveo tutte quelle acque che fino a ieri esondavano; perciò la portata di piena nella fascia compresa tra i due argini subirà un ulteriore incremento. Tutto il rischio idraulico ridotto per i vari centri abitati sarà dunque scaricato interamente su di noi che –costretti, per evidente necessità, a restare sulle rive del fiume– saremo la vera vittima sacrificale di tutti gli interventi.

Saremo perciò i più ferventi sostenitori del canale scolmatore e del dragaggio continuo del tratto prefociale (condividendo in gran parte le richieste dei residenti di Fiumaretta) e, magari, chiederemo di essere almeno autorizzati a realizzare delle difese in proprio e a nostre spese.

 

Tutti i residenti nel basso Magra

Naturalmente, tutti i gruppi sociali visti finora –sebbene in aperto conflitto sulle soluzioni da adottare localmente– saranno perfettamente concordi nel chiedere interventi nell’alto e medio bacino, quali casse di laminazione o dighe che trattengano le acque di piena riducendo la portata che giunge al tratto terminale.

E considereranno irragionevole ed egoistica l’obiezione dei Comuni che, dovendo ospitare tali opere, si chiedono perché mai dovrebbero pagare loro il costo territoriale delle scelte urbanistiche imprudenti compiute dai Comuni del basso Magra.

Così come riterranno ingiustificata l’obiezione dei costi di questa scelta (la scarsità di vaste aree libere costringerebbe a realizzare molte piccole casse, perciò poco efficaci e, nell’insieme, molto costose). I costi economici e territoriali sarebbero infatti a carico di altri; perciò, anche se lo stato dovesse spendere 100 e noi dovessimo ricavarne un beneficio di 10, per noi sarebbe comunque una scelta vantaggiosa.

 

La tecnica non è neutrale

L’esame delle posizioni dei diversi gruppi sociali, seppur sommario, ha teso ad evidenziare che le diverse soluzioni tecniche possibili, sebbene equivalenti nel conseguire un dato obiettivo di riduzione del rischio, differiscono per un aspetto essenziale: chi ci guadagna da una data soluzione? Chi ci perde?

Proprio per far prevalere l’interesse generale sulla miriade di interessi locali, sono state istituite le Autorità di bacino, il cui compito principale è quello di individuare un insieme coerente di misure e di interventi. Dovendo valutare l’insieme degli effetti di un dato intervento, l’Autorità di bacino non è nemmeno tentata di progettare quegli interventi “scaricabarile” (che riducono un rischio locale scaricandolo a valle) che in precedenza erano la prassi abituale.

Oltre ad un ruolo tecnico, dunque, le Autorità di bacino svolgono un ruolo politico di “arbitro” imparziale: cercare di individuare quelle soluzioni che, nel loro insieme, massimizzino i vantaggi e minimizzino gli svantaggi per i residenti nell’intero bacino: il risultato di questa operazione è il Piano di Assetto Idrogeologico (PAI).

Tuttavia, anche se a grandi linee l’Autorità di bacino ha tenuto conto dei possibili conflitti tra i diversi gruppi sociali, svolgendo in maniera equilibrata il ruolo di arbitro, nelle singole situazioni locali c’è sempre la possibilità che un’analisi più accurata e di maggior dettaglio possa giungere ad una soluzione migliore di quella individuata a scala di bacino.

In particolare, nel tratto terminale del Magra l’Autorità di bacino stessa ha lasciato aperta la scelta tra due varianti (argini alti, oppure argini bassi + scolmatore), lasciando la scelta agli enti locali.

 

Come se ne esce? Il processo decisionale partecipativo

Torniamo dunque alla scelta della riduzione del rischio nel tratto terminale del Magra. Abbiamo visto che i conflitti tra i vari gruppi sono evidenti e, tuttavia, non dichiarati. Ciascun gruppo propugna la sua soluzione senza prendere in considerazione le obiezioni degli altri né, tantomeno, dare ad esse una risposta ragionevole. È un dialogo tra sordi in cui rischia di vincere non la ragione, ma chi grida più forte o ha più agganci col potere.

Per uscire da vicoli ciechi analoghi a questo, molto frequenti nel campo ambientale, è stato sviluppato da anni lo strumento del processo decisionale partecipativo in cui primo passo è proprio quello di far emergere i conflitti e gli obiettivi e i timori di ciascun gruppo. I conflitti possono essere:

  • tra obiettivi: tra la sicurezza e la naturalità, le attività economiche (turismo, nautica, agricoltura), le aree edificabili, i beni ambientali; tra i costi della soluzione ottimale e l’urgenza di ridurre subito il problema; e così via;
  • tra portatori di interesse: residenti, operatori della nautica, agricoltori, ambientalisti, ecc.
  • tra gruppi sociali: tra residenti di monte e di valle, oppure tra quelli adiacenti al fiume e quelli della piana, senza dimenticare il conflitto tra noi e le future generazioni, che non vorrebbero che noi scaricassimo su di loro i costi delle nostre scelte.

Il processo decisionale partecipativo prevede il coinvolgimento attivo di tutti i gruppi interessati e che, prima di arrivare ad esaminare le possibili soluzioni tecniche, ciascuno debba partire dal riconoscimento che, sebbene in conflitto tra loro, gli interessi di tutti i gruppi sono legittimi. Non è questa la sede per descrivere i requisiti del processo partecipativo (a questo tema sono dedicati interi volumi). Ci limiteremo a dire che non si tratta della partecipazione come comunemente intesa (assemblee, dibattiti), ma di un confronto guidato da specifiche professionalità che segue un percorso razionale, rigoroso e preventivamente condiviso, esplicita tutti i valori in gioco, consente ad ogni gruppo di attribuire il suo giudizio di importanza ad ogni obiettivo e prevede un triplice livello di valutazione delle soluzioni tecniche alternative considerate:

  • al primo livello, tecnico, una valutazione multicriterio, misura le prestazioni di ogni alternativa progettuale nei confronti di ciascun obiettivo considerato;
  • al secondo livello, sociale, si misura il grado di soddisfazione di ciascun portatore di interesse nei confronti di ciascuna alternativa, individuando anche chi ci guadagna, chi ci perde (e quanto) e ricercando possibili soluzioni di compensazione;
  • al terzo livello, politico, il decisore conserva il potere (e la responsabilità) di decidere la soluzione migliore, ma è tenuto a farlo con trasparenza (dichiarando esplicitamente il “peso” da lui attribuito ai vari portatori di interesse).

Ogni fase del processo deve essere rigorosamente documentata e tutti devono essere messi in grado di conoscere gli aspetti tecnici e di accedere alla documentazione prodotta (ad es. tramite un apposito sito web).

La decisione finale resta dunque nelle mani del decisore politico, ma i suoi margini di arbitrarietà sono decisamente ridotti. I primi due livelli, infatti, divengono una sorta di “sistema di supporto alle decisioni” che aiuta il decisore conferendogli maggior responsabilità, ma anche maggior consenso (derivante dalla partecipazione) e maggiore autorevolezza (in quanto supportata dalla valutazione multicriterio).

Un processo decisionale ben condotto porta spesso ad individuare la soluzione “win-win” (cioè “tutti vincenti”), eventualmente ricorrendo a compensazioni per i gruppi che subiscono un certo svantaggio. C’è da augurarsi che si abbandoni il dialogo tra sordi e si intraprenda questa strada.

Sarzana, 25 marzo 2013
 

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